La casa della stella, di Ilaria Pezone, è un film documentario che prova a svolgere un viaggio tortuoso nell’animo e nelle idee di Petruska Vitiello, figlia degli artisti Donato Vitiello e Gutte Norrild. Sia suo padre, campano, ex docente di disegno all’Accademia delle Belle Arti di Napoli, che sua madre, danese, erano stati portatori di una sensibilità artistica straniante ed eversiva, caratterizzata da un rifiuto totale di ogni convenzione sociale facilmente strutturata. Chiusi nel proprio mondo, i due vengono presentati come degli outsiders. Il risultato, in termini strettamente educativi, era stato quello di una progressiva emarginazione dai tessuti socio-familiari riconosciuti, e si era risolto, per Petruska, affetta anche da una malattia invalidante che l’aveva allontanata dagli studi, in un senso di inadeguatezza e di distacco dagli affetti – in particolar modo dalla madre, percepita come una presenza nemica – e dalla vita sociale in quanto tale. La macchina da presa si muove, ora frenetica ora quasi strisciante, nella casa ridondante di oggetti d’arte, alla ricerca del volto di Petruska, di una verità che le si agita dentro, mai perfettamente compresa. La ragazza è al quinto mese di gravidanza, ma su questo sembra non volersi esporre troppo, come se ci fosse da riempire ancora grosse porzioni di vuoto nella sua vita aldiquà della maternità. I suoi occhi e le sue mani dimenticano presto le opere che la circondano, e cercano ossessivamente l’unico sollievo, forse l’unica terapia o sgraziata forma d’arte che la ragazza ha saputo opporre all’antica maestria dei genitori scomparsi: i tarocchi. Quelle carte le permettono di leggersi dentro e di afferrare, forse, la coda di un futuro che le sembra sempre troppo sfuggente e scivoloso. Non a caso, la sua carta è la Stella, uno degli Arcani più ambigui e misteriosi, sintesi ed icona della ricerca di un proprio posto nel mondo. Qual è, appunto, il posto di Petruska? Come si spiega la sua estrema ambiguità? La sua forma eternamente ibrida. La sua palese incompletezza. La sua nascita mai davvero compiuta. È anche questa una risultante educativa, un suo essere non del tutto uscita dal guscio a seguito del particolare ambiente familiare in cui si era formata? O, più profondamente, è una conseguenza della sensibilità artistica dei suoi genitori, quasi come se fosse lei stessa una delle loro opere, rimasta a metà, in una posizione intermedia fra idea e nascita, fra guscio e mondo, fra istinto e categoria? Adattandosi perfettamente a questa sostanziale ambiguità della protagonista, il linguaggio filmico di Ilaria Pezone è a sua volta consapevolmente sgrammaticato, programmaticamente sconnesso, cinematograficamente non nato. Quasi ci fosse, fra le due, fra il personaggio di Petruska e la sua autrice filmica, una sorta di fil rouge, di legame sottile, di compartecipazione all’atto creativo. L’obiettivo, come dichiara la stessa regista, era sviluppare una sorta di realismo magico, che rendesse gli oggetti, le opere d’arte, il volto di Petruska concreti, pienamente corrispondenti alla loro materia, e contemporaneamente capaci di distaccarsene per suggerire o evocare altro. E ancora troviamo, in un gioco, appunto, di continue corrispondenze, un misterioso legame con l’arte di Donato Vitiello, tutta basata, come racconta Petruska, su calcoli matematici, su combinazioni numeriche tutte divisibili per 66 – numero esoterico per eccellenza, che fu, incredibilmente, anche il numero degli anni compiuti dal padre al termine della sua vita. Insomma, un’arte, quella di Vitiello, anch’essa misurabile ed astratta allo stesso tempo. Non conclusa nell’oggetto che la rappresentava, ma proiettata verso tutta una serie di soluzioni, evocazioni, calcoli che andavano aldilà della stessa creazione. Dunque un’arte, sostanzialmente, non terminata, non definita, non linguisticamente perfetta. Con Petruska, il film si chiede cosa si celi dietro l’esigenza di credere ad una verità spirituale esoterica. La risposta, o una delle possibili risposte, ci verrebbe da dire, sta proprio nell’eterna incompletezza che l’uomo, e l’artista su tutti, si porta dentro dall’alba dei tempi.
SIX QUESTIONS
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- to get to know the director -
ILARIA PEZONE
Qual è il messaggio che vuoi comunicare con questo film?
Non c’è un messaggio, ma una ricerca, un’indagine.
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Come hai iniziato a fare film?
Ho iniziato giovanissima, alle medie, con una compagna di classe, per sopravvivere alla noia. Fin da piccola ero attratta dall’arte, componevo a mio modo poesie, musica e “dipinti”. Ho proseguito poi con gli studi artistici, dal liceo all’accademia. L’interesse per il cinema è però nato alle medie, ne guardavo molto, commerciale, e poi provavo a emularlo a casa mia, in chiave ironica. Ho sempre aspirato all’ironia, amo inoltre i grandi attori comici (Keaton, Totò, Troisi, ma anche il Trio Lopez/Solenghi/Marchesini, Lillo & Greg, R.Atkinson… tutto ciò che fa riflettere ma anche ridere, a proposito di linguaggio). Dal cinema commerciale mi sono subito distanziata nel momento in cui ho capito che si poteva includere la vita, nel cinema, perché è una forma in grado di includerla senza pose intellettualistiche.
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Hai sempre le idee chiare quando sei sul set? Quanto peso dai all'improvvisazione e quanto alla pianificazione?
Penso di dare peso sia all’improvvisazione, sia alla pianificazione, che a volte è scritta e molto spesso è nella mia testa. Mentre giro ho già più o meno chiaro il montaggio, ma io stessa ho bisogno di divertirmi mentro lo faccio, per cui mi sfido con l’improvvisazione, per vedere dove posso arrivare. E poi evitare la noia, sempre. Se mi annoio riprendendo vuol dire che non e’ il caso di farlo e preferisco non fare nulla.
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Che tipo di rapporto instauri con gli attori? Pensi che questi debbano essere lasciati liberi di esprimere il loro potenziale o sei convinto che vadano seguiti in ogni singolo aspetto?
Ho sperimentato con vari attori in forme diverse. Credo che dell’attore sia interessante vedere il lato maschera e il lato umano al contempo: maestria e tentennamenti, impostazione e spontaneità. Chi interpreta chi? Mi interessa il personaggio o l’attore? Per farlo l’improvvisazione è necessaria, arriva autonomamente senza dichiarare gli intenti, è fondamentale. Anche perché è sciocco chiedere a una persona, che nella vita recita se stessa, di recitare qualcos’altro altro, a mio modo di vedere: al massimo si può chiedere di esaltare degli aspetti anche deformanti rispetto a ciò che si tende a recitare nella vita quotidiana, ma la maschera c’è sempre, non si toglie mai, nemmeno quando si è soli con se stessi. Avere a che fare con attori (professionisti o meno) è un’occasione per riflettere sulla vita e sul nostro modo di porci nella vita. È un’esperienza, per l’attore, per il regista, per il pubblico. E non è noioso.
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Che rapporto hai con la grammatica universale del linguaggio cinematografico? Come decidi quale inquadratura utilizzare in una scena o quale movimento della fotocamera applicare per raggiungere il tuo obiettivo?
Da sempre prediligo l’obbiettivo normale o il teleobbiettivo per un’esigenza legata alla spontaneità di chi riprendo, alla necessità di distanza da parte mia. Mi piace che nelle riprese ci sia un respiro, quello legato al movimento del corpo nello spazio, mentre sta riprendendo. Nei miei documentari quasi tutte sono immagini rubate, non dico mai “azione!”, preferisco girare molto e montare ancora di più. Forse è proprio il montaggio la parte più creativa, quella che richiede lucidità e concentrazione, indispensabile ai miei film perché anche lì improvviso cambiando a volte direzione, lasciandomi guidare dalle sensazioni, tenendo sempre presente uno sguardo esterno. Il primo spettatore sono io, in un ruolo diverso dalla fase di produzione, mi pongo come un’estranea al girato stesso, cerco di capirlo, interpretarlo e renderlo interpretabile da altri sguardi.
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Quanto di te metti nei film che realizzi? Ti limiti a dare la tua impronta stilistica oppure cerchi di comunicare le verità in cui credi, o gli stati d'animo che vorresti trasmettere?
Ci sono molto, per necessità, a volte provo a togliermi, ma la mia presenza è inevitabile: del resto sono il filtro attraverso cui guardare ciò che si sta guardando, ed è ciò che mi interessa quando guardo anche film di altri autori: provare a trovarli, capire l’origine di ciò che sto guardando, la sua causa. Che è l’autore, sempre, anche se a volte è più che mai mascherato.